La Cupa Cupa è uno strumento musicale popolare costituito da un recipiente di solito in terracotta, coperto da una stoffa o membrana e una canna lunga e sottile. La canna viene legata al centro della membrana che la avvolge in punta ed è tenuta ferma da uno spaghetto. La membrana, a seconda della zona in cui lo strumento si trova, può essere realizzata in vari materiali, quali pelle di capretto o capra.
Nella zona basso-pugliese la membrana è di capretto, mentre nella zona campana è di pelle più dura, generalmente di capra. Anche in Lucania la cupa cupa era uno strumento largamente diffuso. Esiste la variante al maschile, il "cupa cupa". Si tratta chiaramente di una definizione onomatopeica. Il "cupa cupa" produce sempre e comunque lo stesso suono, quello del nome. Da cui la particolare importanza dell'abilità del suonatore, che da quell'unica nota doveva ricavare le varianze dell'accompagnamento. Al punto che, nel corso della "serenata" o dello strambotto, comunque dell'esibizione, si stabiliva una sorta di identità tra lo strumento e il suo suonatore, che gli si rivolgeva chiamandolo "Cupiello". "Sona Cupiello, scinni patrona, scinni lu salzizzo, u cielo è nuvolo e chiova a stizza a stizza" : un invito, nelle fredde serate invernali, a "scendere" dalla pertica cui era appesa a stagionare l'ottima salsiccia lucana, invito fatto, dal suonatore, alla "patrona", cioè la padrona della casa cui si "era portata la serenata", la padrona che gestiva le masserizie, secondo un costume matriarcale diffuso in Lucania. La "cupa cupa" campana differisce da quella pugliese anche per il recipiente, in quanto non è più un vaso dalla larga bocca e a forma di 8, bensi dalla forma allungata e regolare. La "cupa cupa" campana prende il nome di Putipù.
Per suonare lo strumento, la membrana o stoffa si inumidisce con acqua e si strofina sulla canna la mano bagnata chiusa a pugno. Nel modo come la mano viene chiusa risiede la possibilità di produrre un suono altrimenti molto difficile a generarsi. Per non considerare le escrescenze coriacee della canna, in corrispondenza degli anelli di accrescimento, che tendevano a ferire il suonatore: il quale infatti era costretto a pause continue, per raffreddare il palmo della mano, da cui in realtà si innescava il suono. Infatti i suonatori più abili non chiudevano la mano a pugno, ma facevano scivolare il palmo, che spesso ostentavano completamente aperto, su e giù per la canna, a dimostrare la loro perizia. Misurata tra l'altro dal numero di cannucce che si spezzavano durante l'esibizione. Più cannucce si spezzavano, meno esperto era il suonatore. Chissà che l'espressione "spezzacannucce", che nel vissuto popolare significa "incapace", non venga proprio dalla pratica del "cupa cupa". A ogni modo, parlando della Lucania, come improvvisate erano le esibizioni che lo strumento accompagnava, altrettanto improvvisato era lo strumento. Nel senso che il cupa cupa non era come una chitarra, da tenere appesa al chiodo come il fucile da tirar fuori alla bisogna. Il cupa cupa si costruiva per l'occasione e in un certo senso era tanto più grande e chiassoso o melodico a seconda della temperie spirituale che pervadeva il suo costruttore, che poi era anche il suo suonatore. Uno strumento ma nello stesso tempo un simbolo, come la la cannuccia di avena suonata da Titiro delle bucoliche..."silvestrem tenui Musam meditaris avena"... però il cupa cupa faceva più rumore e forse più allegria. Poi, quando la festa era finita, anche il cupa cupa era finito. Nella speranza di poterne poi costruire un altro, a simbolo della continuità della vita, rappresentata da quell'andare del palmo su e giù, che per noi moderni potrebbe, a vederlo, evocare qualcosa di osceno, ma che per loro, i nostri padri, significava la ricchezza, l'unica a loro possibile, quella della prole.